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In viaggio nella steppa [1]

di Giuseppe Pompili


Le immense praterie della Mongolia sono gremite da una moltitudine di quadrupedi, dagli yak alle gazzelle, dai cammelli bactriani agli asini selvatici, dai piccoli roditori come i citelli e i pikas alle marmotte dalle guance paffute oltre che da un'infinita varietà di uccelli: damigelle, gazze, falchi, avvoltoi e aquile. Ma questi animali, di per sé, non appaiono abbastanza esotici da giustificare un viaggio lungo e disagevole attraverso regioni amplissime. La geografia del paese appare spesso monotona, eccettuate le dimensioni colossali e la sterminata vastità della steppa. A ben guardare, non v'è nulla d’eclatante per un animo la cui capacità di stupirsi sia stata già in parte anestetizzata dai ricordi di altri mirabili scenari. Gli archeologi faticano non poco a ricostruire il passato del nomade popolo dei mongoli o, come erano chiamati dagli antichi cinesi, "gli abitanti del Paese dei lunghi giorni e delle bianche montagne". Ciò è dovuto in parte alla mancanza di testimonianze dirette, perché la scrittura è stata introdotta per decreto dai Gran Khan solo in tempi successivi alle conquiste di Gengiz, nel tentativo di conferire una struttura unitaria all'impero. In parte per l'uso di manufatti e di materiali da costruzione deperibili, come il legno e il feltro, che non hanno lasciato tracce durature nei secoli. Eppure, più di qualsiasi altra nazione, i mongoli hanno impresso sulla Storia il loro marchio potente: la Pax Mongolica. Alcune monumentali tartarughe di pietra, solidamente piantate nel suolo, sono tutto ciò che resta di Karakorum, la Capitale del Mondo descritta con stupore e meraviglia da Marco Polo. Si narra che nel giardino del palazzo imperiale sorgesse un albero d'argento a grandezza naturale che, durante i banchetti, spandeva a beneficio dei convitati vino, birra, airak e altre bevande pregiate. Quanto ai templi lamaisti, solo un’esigua schiera è stata risparmiata dalla furia iconoclasta di Stalin accanto a un numero ancor minore di monasteri. Ma tutto questo lo sapevamo. Occorre qualche tempo per realizzare in che cosa la Mongolia è davvero speciale. Per intuire ciò che la differenzia dai paesi circostanti. Appena usciti dalla capitale si nota l'assenza di qualsiasi recinto o steccato. Non vi sono barriere in grado di limitare gli spostamenti o delimitare confini di proprietà. Tranne i minuscoli orti che cingono le abitazioni cittadine tutta la terra è di proprietà comune. Un'altra particolarità si manifesta attraverso la quasi totale mancanza di vie di comunicazione. Con l'eccezione dei tre principali tronchi stradali asfaltati che afferiscono a Ulan Bataar, tutto il paese è percorso da una rete di piste e tratturi, mutevoli e cangianti come ruscelli che seguano l'orografia di un tormentato territorio, adattandovisi. Non appena usciti da una città, da un villaggio, ecco svanire ogni strada, scomparire qualsiasi indicazione. Si è liberi di scegliere una direzione a piacere, orientandosi con l'aiuto dei pali di legno della bassa tensione che uniscono tra loro, per lo più in linea retta, le "capitali" regionali. Del resto, spostarsi in un paesaggio ondulato simile al fondo di un catino dal bordo circoscritto entro un anello di montagne non sembrerebbe richiedere altra iniziativa che seguire fedelmente la direzione prescelta. Operazione facile all'apparenza, ma niente affatto banale, perché sovente le piste sono interrotte dalle acque limacciose di un guado o da una distesa insuperabile di paludosi acquitrini, simili a sabbie mobili.

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