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In viaggio nella steppa [2]

di Giuseppe Pompili


I guadi, quando non affrontabili direttamente perché troppo profondi, si superano risalendo il corso d'acqua anche per chilometri, sperando, prima o poi, d'imbattersi in un provvidenziale pur se traballante ponte di tronchi. I paludosi acquitrini ci hanno insegnato come, al di là di ogni dubbio, la via più breve che unisce due punti dati sulla carta equivale ad una lunghissima deviazione. Per noi che trascorriamo buona parte della vita rinchiusi entro enclave private, segregati in ambienti artificiali che ci costringono ad un forzoso contatto con i nostri simili, tutto questo sembra assai poco familiare. Le vaste praterie dove è possibile viaggiare per giorni senza incontrare anima viva comunicano un forte senso di libertà dove il piacere di un incontro fortuito può cancellare in un istante la monotonia di lunghe ore di viaggio, facendo dimenticare la stanchezza di fronte ad un sorriso straniero. Nulla di sconvolgente, se non fosse per noi così difficile comprendere appieno il valore di un senso dell'ospitalità sobrio ed essenziale quanto naturale e istintivo. L'etica nomade impone di accogliere il forestiero in modo naturale, senza chiedere nulla in cambio. Con semplicità, attraverso la spontaneità. Una consuetudine da cui si sono allontanate tutte le culture sedentarie. Il fascino nascosto della Mongolia risiede in questo genere di quotidianità, frutto di uno stile vita itinerante che le nostre abitudini rendono arduo accettare e ancor più difficile apprezzare. Sotto questo aspetto la Mongolia si rivela un paese seducente come pochi altri, a patto di essere disposti a rinunciare ad alcuni pregiudizi. A patto di dare un valore diverso a quello a cui solitamente attribuiamo eccessiva importanza, ad iniziare da un diverso concetto di tempo e distanza. Purché si sappia godere, senza abusarne, del comfort semplice ed essenziale che può offrire una ger, la dimora trasportabile dei pastori mongoli, sempre a disposizione di chi si vuole rifocillare e riposare, prima di riprendere il cammino. Un viaggio in Mongolia è gustare il sapore della panna acida da poco scremata, della ricotta salata di capra accompagnata della carne bollita di marmotta servita con dure gallette di zucchero e farina. E’ il contatto con gli allevatori nomadi, è montare i piccoli ma veloci cavalli mongoli. E’ bere il kumiss (o airak), la bevanda tradizionale leggermente alcolica prodotta con latte di giumenta fermentato in otri di pelle di capra, mentre gli ospiti spiegano con orgoglio le prodezze equestri del figlio al nadaam locale. E' sorseggiarlo con cautela infinita dalla coppa di radica rivestita d'argento intarsiato, cercando di non inghiottire le mosche annegate che ci galleggiano dentro.

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