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Canto Notturno di un Pastore errante dell'Asia



Cronologicamente ultimo de grandi canti pisano-recanatesi (ottobre 1829-aprile 1830) il Canto Notturno è uno dei momenti chiave dello sviluppo del pensiero e della poesia leopardiana. Con il Canto Notturno Leopardi nuovamente si volge a considerare più in generale, tramite la figura esemplare del pastore errante, la costitutiva infelicità dell'intero genere umano e anzi di tutti gli esseri viventi. Nel paesaggio desolato dell’immensa steppa asiatica, sovrastato dalla misteriosa vastità del cielo stellato, un pastore interroga la luna sul perché delle cose e sul senso del destino umano. Ma le sue domande non trovano risposta, e il silenzio del cielo sconfinato gli conferma ciò che già sapeva, cioè che l’universo è un enigma indecifrabile nel quale l’unica cosa certa è il dolore degli uomini e di tutti gli esseri viventi. Scegliendo una figura umile come protagonista della lirica, Leopardi vuole dimostrare come tutti, ricchi o poveri, intellettuali o analfabeti, si pongono le stesse domande senza risposta sul significato della vita e sull’esistenza del male ; anzi, sulle labbra di un semplice pastore questi interrogativi acquistano una forza particolare, primordiale e assoluta, che esprime la "radice" comune della condizione umana. In Canto notturno le strofe si presentano come una successione di domande rivolte alla luna. Il colloquio del pastore con la luna oscilla tra due spinte contrastanti: da un lato, egli sembra sperare che le sofferenze della vita abbiano un spiegazione che la luna conosce; dall’altro ne dubita e pensa che la negatività del destino umano sia un dato tragico quanto indiscutibile. Il pastore non rinuncia all’idea che la luna possa svelare i misteri della vita e della morte, dell’infinito andar nel tempo e mutare delle stagioni e dell’inquietante vastità dell’universo : a che tante facelle? / che fa l’aria infinita ... (versi 86 - 98). La bellezza della primavera e del cielo stellato devono giovare a qualcuno, non possono essere semplici apparenze di un universo indifferente. Ma lo sconforto emerge nell’ammissione finale, in cui i dubbi fiduciosi lasciano spazio a una certezza terribile : a me la vita è male

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